Ultimo Doge di Venezia - Venezia
(Foto: Ritratto del Doge Lodovico Manin. Bernardino Castelli)
L'ultimo doge di Venezia fu Lodovico Giovanni Manin (1726�1802), eletto il 9 maggio 1789 restò in carica come 120º doge della Serenissima fino al 12 maggio 1797, giorno in cui si svolse l'ultima assemblea del Maggior Consiglio che decretò la fine della Repubblica di Venezia dopo 1100 anni esatti. Tre giorni dopo le truppe napoleoniche entrarono in città e ci fu il grande saccheggio delle opere d'arte veneziane che presero la via di Parigi e del Louvre. Parte di queste - tra cui i cavalli di Piazza San Marco - rientrarono nel 1815 con l'inizio della Restaurazione sancita dal Congresso di Vienna (9 giugno 1815).
Prima dell'arrivo dei Francesi
la carriera politica in qualità di doge di Ludovico Manin non fu certo facile; solo 2 mesi dopo la sua elezione scoppiò la Rivoluzione Francese e - dopo la parentesi del Terrore - un giovane Bonaparte stava fomentando la diffusione delle idee libertarie con imprese militari e infine con una discesa clamorosa verso l'Italia.
Nel frattempo il doge aveva perso sua moglie
Elisabetta nel 1792 celebrandone i funerali nella Basilica di San Marco; pretese allora di abdicare ma il Senato rifiutò constringendolo al suo ruolo politico. Il Manin allora cercò di rinnovare il Governo della Serenissima abolendo cariche ormai anacronistiche e in vigore da più di 8 secoli di forma immutabile. Così per circa 8 anni il Doge Manin cercò di far "galleggiare" Venezia in mezzo alle prorompenti correnti libertarie facendo assumere a Venezia una posizione neutrale non armata. Una specie di suicidio organizzato a fronte delle stupefacenti imprese che il Bonaparte si stava accingendo a compiere. Ma la Serenissima non versava in buone condizioni morali e politiche. Lo stesso Manin scrisse nelle sue memorie:
"Fino dai primi tempi della intrapresa dignità io aveva avuto occasione di conoscere che il nostro governo non poteva sussistere, attesa la scarsezza di soggetti capaci, l'abbandono e il ritiro di molti di essi andando al bando e dichiarandosi abati e che quelli che restavano pensavano più al privato che al pubblico interesse."
Così quando il Bonaparte, ormai padrone del Veneto, si affacciò di fronte a Venezia la risposta fu debole; Verona scacciò temporaneamente i francesi dalla città con un'insurrezione nota come Pasque veronesi (17 april 1797) e Venezia - la sera del 20 aprile 1797 - affondò la tartana francese Libérateur d'Italie, uccidendone il comandante Jean Bauptiste Laugier, con gli unici colpi d'artiglieria sparati dal Forte di Sant'Andrea del Lido in tre secoli di vita.
Napoleone non la prese bene e chiese subito l'arresto di Pizzamano, comandante del Forte Sant'Andrea, e degli Inquisitori di Stato. A Palazzo Ducale intanto regnava il panico, il Senato (preposto a deliberare per la politica estera) non fu nemmeno riunito e i Savi (i ministri della Serenissima) con la Signoria (composta dal doge e dal Minor Consiglio ossia dai 6 aiutanti del doge, uno per ogni sestiere, e dai 3 capi della Quarantia) e il Consiglio dei X (l'organo che indagava i potenziali nemici dello Stato) si riunirono con il doge Manin, ormai attonito. Si dice che in quest'occasione pronunciò le seguenti parole: "Sta note no semo sicuri gnanca nel nostro leto".
Così il 12 maggio 1797, davanti a un Maggior Consiglio minoritario (537 patrizi su un minimo di 600), Manin in lacrime
accettò la richiesta francese di passare a un governo provvisorio e fu abolito il patriziato e la Repubblica dopo 1100 anni. Fu un plebiscito dettato dalla paura alla quale provarono a sottrarsi solo 20 patrizi contrari e il popolo che invase Piazza San Marco al grido di "Viva San Marco!" chiedendo un moto di resistenza per salvare Venezia dal giogo francese. Ma fu tutto inutile e i nobili non si mossero. La Serenissima era morta!
Il Manin negli anni successivi si ritirò a vita privata ma restò un personaggio in vista della società veneziana, anche con il successivo dominio austriaco (1798) instauratosi dopo il Trattato di Campoformio (17 ottobre 1797) che Bonaparte concordò con gli Austriaci.
L'ormai ultimo doge vivente Ludovico Manin nel 1801 comprò Palazzo Dolfin sul Canal Grande, a fianco del Ponte di Rialto (oggi è la sede della Banca d'Italia), e vi morì un anno dopo nel 1802.
I ga fato doxe un furlan, la Republica xe morta. Furono le parole pronunciate nel 1789 all'elezione di Ludovico Manin da Pietro Gradenigo, appartenenti a una della famiglie apostoliche ossia fondatrici di Venezia; parole che si rivelarono profetiche nello spazio di soli 8 anni.
Ma Ludovico Manin non può essere ritenuto il responsabile principale della fine della Serenissima, una società oligarchica che si svegliò troppo tardi vivendo un secolo intero - il Settecento - senza rendersi conto dei grandi cambiamenti geopolitici in corso in Europa accettando implicitamente il suo declino.
Inoltre nel suo testamento Manin lasciò in eredità la metà della sua grande fortuna (100.000 ducati) per il mantenimento dei giovani veneziani
rimasti soli e donando poi 20 ducati ai maschi come incentivo e 50 ducati alle femmine come dote, una somma che al tempo valeva gli alimenti di un anno circa.
Una curiosità: il 17 marzo del 1848 Venezia riuscì per pochi mesi a liberarsi dal dominio austriaco; uno dei protagonisiti di questo successo e Presidente della Repubblica di San Marco fino al 22 agosto 1849, fu Daniele Manin, geniale avvocato di origine ebraiche figlio di Pietro Antonio Fonseca (1762-1829). Quest'ultimo però assunse il cognome del suo padrino di battesimo, un fratello del doge Ludovico Manin.
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